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20/02/2015 623° VENERDI' su Alfonso Berardinelli Marco Cicala - Molti anni fa, un giovane regista che s’era visto trucidare dalla critica il film d’esordio mi disse: «Voi giornalisti fate veramente schifo: in poche righe potete distruggere un lavoro di anni che ha impegnato tante persone. Ma se qualcosa non piace, perché parlarne? Non sarebbe più elegante tacere?». Schiette parole di strazio, non originalissime, però a loro modo profetiche. Da allora, confortando i desiderata di quel cineasta, le stroncature sono diventate rarità; un genere semiclandestino, quasi estinto, praticato da sparuti individui ritenuti rancorosi asociali, tipi ulcerati da livori paranoidi, gente incapace di pensiero positivo e che si avvelena inutilmente la vita. La prima stroncatura firmata da Alfonso Berardinelli uscì sulla rivista Quaderni Piacentini. Era un attacco all`«estetismo operaista» del romanzo di Nanni Balestrini Vogliamo tutto (1971). Da quel momento, Berardinelli non si è più fermato. Benché non si dedichi esclusivamente a demolire, nel tempo i suoi idoli polemici hanno finito per configurare una costellazione dove ai vecchi bersagli (Eco, Calasso, Citati...) e a quelli ricorrenti (Severino, Cacciari, Vattimo, Asor Rosa, Toni Negri...) non cessano di aggiungersi new entry dell’antipatia (Camilleri, Massimo Recalcati, Enzo Bianchi...). Naturalmente si può essere in radicale disaccordo con gusti e giudizi espressi da Berardinelli. Più complicato è non restare attratti dalla sua scrittura insieme aforistica e anacronistica, perché anacronistico - ma non per questo meritevole di eutanasia - è ormai secondo lui l’esercizio stesso della critica. Come altri suoi testi recenti, anche l’ultimo libro di Alfonso Berardinelli ha la corporatura smilza di un opuscolo. Si intitola giustappunto Aforismi Anacronismi (edizioni Nottetempo), rispettivamente temi dei due saggi che lo compongono. In tempi di voluminosi bestselleroni, tempi nei quali il mattone sembra l’ultimo bene-rifugio dell’editoria, gli aforismi ci appaiono più che mai come creaturine gracili e inattuali. Chi ne scrive più? D’altronde, non è che l`Italia possa vantare un robusto passato in materia. Berardinelli come se lo spiega? «Non è facile individuare tutte le cause» dice. «Le prime che mi vengono in mente sono che da noi manca l`abitudine, l`arte della conversazione. Questo è sia un effetto che una causa della nostra debole tradizione teatrale. E poi - salvo eccezioni come Guicciardini o Leopardi - la nostra filosofia morale è piuttosto inficiata da una certa amplificazione retorica». Non solo. «L`aforisma ha due fonti fondamentali: le esperienze esoteriche e moralistiche e il pensiero dialogico, un pò teatralizzato, di origine socratica, che va dalla dialettica dell’agorà alle conversazioni dei salotti e dei caffè illuministi. Ma in Italia l’Illuminismo è stato presto e rapidamente sconfitto». Oltretutto i migliori aforisti - si pensi a Flaiano - sono stati a lungo, e magari abusivamente, confinati nella letteratura umoristica: «È vero. In Italia, quando si esce dall’accademia si scivola subito nel comico. Niente di male. Però viene a mancare il livello intermedio in cui possono incontrarsi l’originalità intellettuale, la libertà provocatoria e l`umorismo». Semplificando: a differenza di quello classico, che tende spesso alla precettistica, l`aforisma moderno di Otto-Novecento è sovversivo, attacca la società ma, come ogni aggressione culturale, ne viene fatalmente recuperato. Se a un cocktail o in un articolo vuoi darti arie di tipo perfidamente intelligente citi Oscar Wilde o il suo grande fan Karl Kraus. «Sì, l’aforisma può far comodo nella vita sociale. Protegge, risolve velocemente, ti permette di nasconderti, ha una naturale propensione bellica. Quindi può anche facilmente scadere, perché è comodo. E le comodità, in ogni arte intellettuale, quasi mai danno buoni frutti». Del resto, «nessun genere o strumento letterario è al riparo da pericoli. L`aforisma è uno dei più rischiosi. È raro e deve restare raro. Le raccolte di aforismi danno presto la nausea. È come nutrirsi solo di aperitivi, di dessert o di pillole». Tra i novecenteschi, chi è secondo Berardinelli il più sopravvalutato? «II sempre amaro e cupo Cioran è così perfetto da trasformarsi in caricatura. Diventare professionisti dell’aforisma mi sembra sconsigliabile, anzi ridicolo». Berardinelli difende da sempre un’idea di critica militante. Ora, militante potrà sembrare parola attempata, dal retrogusto soldatesco e non per forza gradevole, ma per lui designa la critica tout court Quella che, smarcandosi dall`autismo dello studio accademico, «vive di sintonie e di antagonismi, è critica della cultura e della società, del presente letterario (ideologie, gusti, gruppi, istituzioni...). Non studia solo l’oggetto letterario, ma emette verdetti, giudizi di valore e di gusto... ». Certo, vedendolo battere da anni su alcuni chiodi fissi, viene da chiedersi se Berardinelli non abbia ceduto a una qualche sindrome ossessiva che può rasentare l`accanimento. Dopotutto, anche gli obiettivi polemici invecchiano. O no? «Alcuni degli intellettuali su cui maniacalmente mi applico, hanno continuato e continuano esercitare una, secondo me deleteria, suggestione. Severino e Cacciari sono i campioni di un filosofare confuso. Il primo per eccesso di logica, il secondo per eccesso di allusioni e citazioni. Credo che saranno presto accantonati». Ma «la cosa che nella filosofia italiana e continentale mi ha più preoccupato negli ultimi decenni è stata il suo gergalismo esoterico e il fatto che, benché alludesse a posizioni politiche, non permetteva una discussione politica. La gente non si raccapezzava». Alle stroncature di Berardinelli - che lui preferisce chiamare satire culturali - come reagiscono gli stroncati? «Non reagendo». Per definizione, «il pensatore profondo non risponde». Ad ogni modo: «Se attacco Cacciari, ricevo applausi. Se attacco Magrelli, tutti mi deplorano? Perché? Forse perché la filosofia conta ancora qualcosa. La poesia no, è intoccabile. Ma nessuno sa leggerla». Berardinelli, che vent`anni fa mollò polemicamente l’insegnamento universitario, insiste: «Oggi viviamo in una cultura di professori che di solito non amano la conversazione intellettuale; per dire qualsiasi cosa devono fare ricerca e scrivere centinaia di pagine, magari ripetendo con metodo una sola idea» dice. Aggiungendo, aforistico: «Esistono persone che pensano parlando e altre che neppure pensano se non studiano». Per chi volesse avvicinarsi al Berardinelli-pensiero c’è da poco un ottimo utensile. Un libro, stavolta massiccio, intitolato Lo scrittore invisibile (Gaffi editore): 520 pagine di sue interviste e testi su di lui. Essendo stato ordito da Berardinelli medesimo, non è una messa cantata, uno di quei tributi che si dedicano ai professori quando vanno in pensione. Oltre agli interventi affettuosi di allievi o sodali, contiene stroncature dello stroncatore. A seconda, presentato come «critico che non decide» (Renato Barilli); «eccessivo, ridondante, ripetitivo», mosso da «risentimento» e «cinico» (Marco Belpoliti); «aristocratico, populista e snob» (Andrea Cortellessa)... Per tacere di Valentino Zeichen che in una poesia lo definì «l`Adorno de Monteverde». Non esente da brutalità, la perduta noble art della critica riposava nondimeno su qualche principio. Una specie di codice cavalleresco che, vagabondando tra gli scritti di Berardinelli, potresti ricostruire così: non attaccare chi è più debole, ma sempre chi è più forte di te; non nascondere antipatie, limiti, preferenze; non aver paura di dire «io» («la critica è una forma di autobiografia»); ridurre i rapporti personali con l’ambiente («minaccia all’indipendenza di giudizio»); se si parla di un amico, dirlo o farlo capire; accettare di essere sorpresi e contraddetti dai fatti, amare qualcosa che non ti aspettavi di poter apprezzare; essere capaci di ammirazione... Facile a dirsi. Quando tutti parlano bene di tutto, sei tentato di non credere più a nessuno. Ma perché si è arrivati al grado zero della polemica? C’entrano il gigantismo del mercato, i dispositivi di censura economica che riducono il giudizio a un più o meno raffinato pistolotto promozionale? Incorporati giocoforza nell’industria del sapere, gli intellettuali hanno perso l’irriverenza «controculturale» che contrassegnò epoche più politicizzate e magari fratricide? Stando a Berardinelli, molto sarebbe dovuto al consolidamento degli assetti cianici: «Fare satira dei propri colleghi intellettuali infrange il fair play o l`omertà di corporazione. Non te lo perdonano. Ma una soluzione c`è: non considerarli colleghi». E restarsene lì a stroncare in beata solitudo. «Perché lo faccio? Perché mi risulta insopportabile essere preso in giro e che si alterino in modo vistoso le proporzioni reali, l`importanza di un autore o di un fenomeno culturale. Non mi piace che si dica che una collina è una montagna». Tu chiamale, se vuoi, sopravvalutazioni. Seppur con qualche fisiologica eccezione statistica, noi giornalisti saremmo dunque diventati per contrappasso un branco di sporchi sopravvalutatori. Facciamo veramente schifo. Ricordateci nelle vostre preghiere. Allegato |
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