01/09/2014
585° TRIBUNA LETTERARIA su Dario Biagi

Natale Luzzagni - Quando anni fa mi trovai di fronte ai suoi quadri rimasi conquistato dall’affascinate combinazione di colori, forme ed atmosfere. Mi incuriosì immediatamente la sua firma: Cagnaccio di San Pietro. Aveva il richiamo di qualcosa di epico, allo stesso tempo monumentale ed ironico. Solo più tardi ho scoperto che si trattava del nome d’arte di Natale Bentivoglio Scarpa (Desenzano sul Garda, 1897-Venezia, 1946). Qualcuno potrà sospettare che la mia simpatia sia motivata dal nome che ci accomuna. In realtà questo straordinario artista merita un posto importante nella storia del Novecento. Devo sottolineare come nel mio lavoro di ricerca sia risultato fondamentale il libro di Dario Biagi Cagnaccio di San Pietro (Gaffi Editore) uscito lo scorso anno. Biagi ha raccolto ed analizzato i documenti che rimangono dell’artista e si è avvalso del prezioso contributo di Liliana Scarpa (detta Lilli), figlia del pittore veneziano, e della gallerista milanese Claudia Gian Ferrari che ha il merito di aver riportato l’attenzione sul talento di questo pittore. In effetti, fino agli anni ‘70, Cagnaccio rimase ai margini dell’attenzione degli addetti ai lavori, quasi si trattasse di una figura troppo "minore" per essere offerta al grande pubblico. Pare che oggi il torto sia stato "sanato".

Natale "diventò" Cagnaccio attorno al 1916 per una collettiva presso il Salone Bonvecchiati. il genitivo di appartenenza "di San Pietro" venne aggiunto a partire dal 1925. Nelle tele più celebrate il nome per intero è ben visibile: Cagnaccio di San Pietro. Natale lo usò anche nei documenti privati. Perché questo nome? Pare si si trattato di un omaggio al cane dei nonni paterni. Ma, in realtà, il motivo è più profondo. Certamente "di San Pietro" volle celebrare quel senso di appartenenza all’anima popolare veneziana che intese rappresentare in tutta la sua carriera. Cagnaccio fu probabilmente un termine scelto per definire uno spirito, allo stesso tempo, ribelle e tradizionalista. Fin da bambino, portato dai genitori a San Pietro in Volta nell’isola veneziana di Pellestrina, visse libero tra reti e barche, odore di laguna, espressioni dialettali, sapori e tradizioni popolari. È lui stesso a raccontare la sua solitudine di bimbo selvatico, cupo ed irrequieto. Vagava curioso, scriveva in maniera compulsiva versi e considerazioni. E poi disegnava con una disinvoltura sorprendente. Quando Ettore Tito (prestigioso insegnante della locale Accademia di Belle Arti) vide un ritratto realizzato dal ragazzo invitò i genitori ad iscriverlo all’Accademia. Natalino compì a 16 anni un solo anno di studi, poi ne uscì e mantenne con Tito un rapporto di cordiale collaborazione e amicizia al di fuori degli ambienti scolastici. Era davvero un enfant prodige. Un cane randagio, uno spirito libero capace di sperimentare tecniche e soluzioni pittoriche con una perizia indiscutibile. Fa sorridere il fatto che molti anni dopo sarà uno dei sostenitori di una formazione dei giovani talenti secondo la disciplina tradizionale. Ma non è una contraddizione. Cagnaccio fu contemporaneamente anticonformista, padre e marito devoto, umile artigiano e intellettuale dalla morale ferrea. Cercava di carpire nella realtà quotidiana qualsiasi segnale lo inducesse a disegnare, a "costruire" un brandello di realtà. Tutta la sua pittura risulta maniacalmente edificata, particolare dopo particolare, in una sorta di rigoroso procedimento per passaggi: prima uno schizzo, poi l’analisi di ogni singolo elemento. Volti, corpi, arti, tronchi venivano isolati e definiti pezzo per pezzo. Cagnaccio si era a lungo misurato con la pratica delle procedure tecniche più raffinate. Trasportava il disegno su lucido e con il sistema dello spolvero (bucherellando i tratti) lo trasferiva sulla tela. Spesso durante le mostre le sinopie bucherellate comparivano accanto alle tele. Per i soggetti l’attenzione si era concentrata su quell’affascinante mondo popolare che Venezia offriva a mani basse. Lo attiravano le donne di strada, i personaggi del mare, i mercati, le operaie. Fu proprio fuori dalla fabbrica Junghans, punto di osservazione privilegiato, che conobbe Romilda Ghezzo, detta Mima. Colpo di fulmine. Da lì prese forma la nuova famiglia Scarpa.

Dopo qualche breve esperienza di genere futurista, l’artista veneziano approdò alla "sua" pittura, vicina ad un realismo del tutto originale. Il 1928 fu cruciale nella cartiera di Cagnaccio. È l’anno della sua trilogia allegorica sulla dissolutezza dei costumi. Alla sedicesima Biennale di Venezia espone Dopo l’orgia (1,80x1,40). La tela raffigura tre donne (la stessa modella che posa in una prospettiva a triangolo) accasciate dopo essersi concesse ai voleri di un uomo. Tra gli oggetti sparsi ci sono una bombetta e dei gemelli con il simbolo della cimice fascista. Il quadro crea uno scandalo di enormi proporzioni. L’amico Luigi Linassi implora Mima di convincere il marito a cancellare quel simbolo. Cagnaccio ubbidì, ma le reazioni contro di lui erano già scoppiate. Le critiche di Margherita Sarfatti (il referente culturale del duce) e il rifiuto della tessera fascista limitarono profondamente le possibilità professionali di Cagnaccio, ma non riuscirono a impedirne il lavoro. Il pittore di San Pietro godeva di una spontanea solidarietà. Per preservarlo dalle rappresaglie fasciste lo portavano nel manicomio veneziano di San Servolo. Era minato dalle sue ulcere, dai postumi di numerosi interventi, da una salute precaria che lo costringeva a periodici soggiorni tra Treviso e Belluno. Nonostante questo fumava decine delle sue Macedonia, non rinunciava ai numerosi caffè e spesso disegnava a letto. Non aveva mai rinunciato alla sua pittura. I suoi quadri spiccavano per l’eleganza e la precisione dei tratti in un "naturalismo spettrale" in cui il realismo delle figure si contrapponeva ad uno sfondo spesso indefinito. La critica ha classificato la sua pittura come un esempio di realismo magico (assieme a pittori come Antonio Donghi). Allo specchio del 1927 è un concentrato del talento di Cagnaccio. Un’attrice si prepara per lo spettacolo. La figura domina la scena con tutta una gamma di oggetti accessori finemente dipinti. Lo stratagemma dello specchio (che già ín sé è una prova di bravura per la capacità di definirne i riflessi) riflette un volto ottenebrato, assente. È un elemento frequente per Cagnaccio. Usa un’immagine apparentemente quieta per richiamare uno spazio interiore, un mondo emozionale che induca ad un senso di stupore e straniamento. La nitidezza delle apparenze gioca con le increspature dell’anima. Anche la scelta della prospettiva "schiacciata" contribuisce allo scopo. Ad esaltare questa indole artistica hanno certamente contribuito il laudano, la morfina e l’eroina che potevano lenire il dolore di un corpo martoriato e sofferente. Cagnaccio godeva della benevolenza degli amici perché era un generoso. Si indebitava pur di restare fedele a promesse e propositi, era osteggiato dal regime e aveva giurato eterna fedeltà alla famiglia e a Venezia. Il destino gli sorrise nel 1934. Tutta l’Italia seguiva con attenzione Mussolini che accompagnava Hitler alla Biennale veneziana. Quando il tedesco, incantato di fronte al Randagio (1932) di Cagnaccio, fece cenno di volerlo acquistare gli fu detto che non si poteva, trattandosi dell’opera ipotecata di un artista sommerso dai debiti. Hitler se ne stupì e insorse dicendo che in Germania questo non sarebbe mai capitato. Mussolini condonò ì debiti e permise l’acquisto. Cagnaccio gongolò immaginando le facce dei suoi detrattori. In pochi giorni rifece il quadro (a memoria) con le stesse misure (56x42). Non dimenticava che un dittatore sanguinario aveva colto l’elegante fascino di un giovane mendicante. E voleva raccontare al mondo che la bellezza, al di là di un qualsiasi possesso, è solo nel cuore di chi sa immaginarla. questo nome? Pare si si trattato di un omaggio al cane dei nonni paterni. Ma, in realt



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