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27/04/2014 565° DOMENICA su Raffaello Palumbo Mosca Massimo Onofri - È difficile dare torto a Alfonso Berardinelli quando qui, il 16 marzo scorso, recensendo L’invenzione del vero (Gaffi) di Raffaello Palumbo Mosca, individuava una contraddizione: l’aver definito «officianti il funerale della forma-romanzo» tutti coloro che esprimono «qualunque dubbio sulla consistenza della sovrapproduzione narrativa attuale» e l’essere nel contempo andato in direzione opposta, col risultato di celebrare, alla fine del viaggio, molti libri che romanzi non sarebbero, a finire dal bellissimo Riviera di Giorgio Ficara, su cui entrambi concordano. Difficile dargli torto, considerando che Berardinelli è uno degli eroi intellettuali del libro di Palumbo Mosca: quel Berardinelli che, come mostra il suo notevole Non incoraggiate il romanzo (2011), non nutre quasi più, sul genere letterario che nacque borghese, nessuna illusione. Ora, però, bisognerebbe confrontarci con la pars costruens de L’invenzione del vero, di gran lunga la più importante, impegnata nel tentativo d’uscire finalmente dall’impasse d’una crisi, quella del romanzo appunto, che non finisce mai di finire. Tentativo tanto più apprezzabile perché compiuto da un trentenne, cioè dal rappresentante d’una generazione che, sinora, è stata ostaggio del mito post-tondelliano della narratività a ogni costo, anche a scapito delle idee. È vero: Palumbo-Mosca punta le sue carte su quel tipo di narrazioni ibridate, che hanno deciso di contaminarsi con altre forme di prosa: il saggio, l’articolo giornalistico, il pamphlet, il diario e l’autobiografia. È di sicuro più felice quando scommette su libri che, se non sono romanzi in un senso classicamente novecentesco (antiromanzo e metaromanzo compresi), non sono nemmeno saggi in un senso tradizionale, né studi con finalità di tipo scientifico o accademico (aggettivo che pronuncio in un senso nobile, non polemico), ma implicano sempre una forte vocazione sperimentale, non solo - e virtuosisticamente - di scrittura, ma soprattutto concettuale. Risulta meno felice invece, quando la sua scelta cade proprio su forme non romanzesche che però esibiscono più evidenti vincoli di genere, come nel caso di alcuni critici letterari citati. Che orizzonte è quello aperto da Palumbo Mosca? Se parla d’un romanziere anche puro - uno che per me rappresenta oggi la categoria ai più alti livelli -, e cioè Sandro Veronesi (lo stesso discorso vale per Cerami), è evidente la sua preferenza per libri come Cronache italiane e Occhio per occhio. La pena di morte in quattro storie. Per restare alla generazione di mezzo (sono del tutto d’accordo con lui), campeggiano qui scrittori spuri come Edoardo Albinati, Eraldo Affinati e Antonio Franchini. Dei grandi vecchi, è evidente la sua simpatia per Raffaele La Capria, quello più scopertamente autobiografico e concettuale. Celebra poi Arbasino: soprattutto perché non si preclude nessuna strada e tende a inglobare i materiali più eterogenei. Tra i saggisti incamminati sulla strada dell’ibridismo, oltre a Ficara, possiamo incontrare Silvano Nigro, Raffaele Manica, cui devo aggiungere, per certi libri, di modo che al lettore non sia celato nulla, anche me stesso. Ecco: dove sta la novità di questo tentativo, insieme teorico e di storicizzazione? D’aver cercato una soluzione alla crisi del romanzo, e delle narrazioni in quanto tali, al di là degli steccati ormai fatiscenti di genere, su un terreno che non è né retorico, né stilistico, tanto meno ideologico, ma espressamente epistemologico, disegnando genealogie davvero sorprendenti, su cui dovremmo meditare. Allegato |
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