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08/06/2013 483° BRESCIAOGGI su Dario Biagi Mauro Corradini - Natalino Bentivoglio Scarpa, in arte Cagnaccio di San Pietro, nasce a Desenzano del Garda il 14 gennaio 1897, dove suo padre, Flaminio Giovanni, si era trasferito con la famiglia per esercitare, come «marittimo», l’attività di fanalista del faro. Torna in laguna ai primi anni del Novecento; Natalino cresce in riva al mare, sentendosi figlio di pescatori. Avrà una vita breve, segnata dal dolore e dal male, che lo conduce precocemente alla morte: la sera del 29 maggio 1946, i figli Lilla (Liliana) e Rino, seduti accanto al letto del padre gli tengono la mano, mentre il polso si spegne. Sono l’alfa e l’omega di una biografia che con intelligente indagine ha appena pubblicato Dario Biagi (Gaffi editore in Roma - collana diretta da Raffaele Manica), biografia che fa luce su molte inesatte letture che hanno circondato la vita di questo straordinario maestro. La cui vicenda, stiamo alle parole del curatore, si comprende e si riconosce nella sua natura bifronte: ribelle e tradizionalista. Giunge in autonomia alla pittura, scoperto, attraverso disegni spontanei, da Ettore Tito, che Cagnaccio segue in accademia (ha 16 anni) per un solo anno, sentendosi poco adatto ai ritmi della vita accademica, rimanendo tuttavia attento e affettuosamente legato al suo maestro, anche se nulla in pittura esiste, in quei tempi, di più lontano della sua scelta, nei confronti di quel mondo tardo-impressionista e scapigliato del docente veneziano. E tuttavia, considerati gli scarsi studi regolari e la straordinaria, eccezionale, competenza tecnica, di certo si può agevolmente affermare che Cagnaccio abbia appreso dal suo maestro - e dagli altri contatti veneziani - molto più di quel che è riconducibile nell’insegnamento dell’anno d’accademia. La sua storia artistica, che pur sfiora alcune presenze stilistiche, che sono proprie del tempo, dal simbolismo di derivazione secessionista, all’adesione limitata al futurismo, appare decisa e segnata dal bisogno di quella ricerca, di ritmi espressivi, propri della tradizione pittorica, non solo italiana, nella stagione tra le due guerre; tale legame viene in parte contraddetto dalla «sua doppia anima di anarco-conservatore». Difficile, per un giovane rivolto quasi naturalmente alla pittura sfuggire al richiamo klimtiano (mostra del 1910) e ai rinvii culturali che rimangono nella sua produzione successiva (nelle pergamene per l’Ospedale al Mare dove lo disintossicano dalla morfina che assumeva, per combattere il dolore, pone come frontespizio una frase cara al pittore viennese: «Ardo per illuminare»; «Brucio per riscaldare»). In realtà, la sua storia espressiva, che lo fa grande in quel contesto di «realismo magico» che ha pochi appigli nella cultura italiana, vive su una pittura che associa al dettaglio narrativo di incantevoli misure, la pienezza di una spiritualità interiore che gli rende impossibile ogni retorica narrativa e lo tiene lontano dai populismi: il suo popolo è quello autentico che viene dal mondo del mare («L’attesa» del 1934). Il curatore annota acutamente il risvolto spirituale che non manca di apparire all’interno di un’opera, in parte offuscata nel suo tempo dalle scelte politiche (irriducibile antifascista), e dal suo netto modo di leggere l’arte, senza concessioni né a se stesso, né certamente agli altri. E tuttavia uomo di affetti e di inesauste tensioni poetiche, vissute all’interno del ristretto, ma appagante, nucleo familiare, incurante, spesso di quei valori «mondani» che l’arte ha sempre rincorso; l’opera di riflessione sulla biografia tracima, ma era inevitabile, sul versante critico, mettendo in luce gli elogi e le incomprensioni. Utilissimo volume anche per gli apparati che il curatore inserisce nel testo, una sorta di «antologia» dei testi sparsi di Cagnaccio e delle riflessioni critiche, spesso anche generose, per quanto episodiche, nei confronti di una qualità pittorica riportata in luce, rimessa nella giusta prospettiva in cui vale la pena di ricollocare un autore più importante dei meriti riconosciuti. Allegato |
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