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11/12/2011 197° NELLA NEBBIA su Paolo La Bua Intervista di Marco Cassisa - Adoro raccontare storie. Ecco perche m’innamoro dei personaggi di cui scrivo: l’eroe Paolo Foglia, l’intellettuale/sportivo Sollier, il fratello maledetto Hottejan, il “nonno” Flaborea”. Tra le pieghe delle chiacchierate pr questa intervista, spesso mediate da mail e chat in Facebook, sbuca il dettaglio di verità più limpido: a Paolo piacciono le storie, specie quelle che hanno un protagonista da poter descrivere, un primo attore cui tributare la giusta attenzione e dedicare ore passate a comporre testi, riempire fogli, sfogliare album fotografici e non solo.
Partiamo dal tuo ultimo lavoro: perché un libro sul Basket e perché, in particolare una biografia? Il basket è il mio primo grande amore, sportivo. Sono stato un giocatore e ho pure maturato una piccola esperienza da allenatore. Insomma, penso di capirne qualcosa, il che aiuta, ovviamente. Essendo uno che scrive libri e non uno scrittore, ho bisogno di conoscere e di padroneggiare l’argomento di cui voglio mettere giù nero su bianco. È un’eredita del mio lavoro di giornalista: più conosci un argomento, meglio puoi raccontarlo o spiegarlo, per iscritto in questo caso. Inoltre sul basket c’è un vuoto narrativo. L’Italia è una Repubblica fondata sul calcio, anche dal punto di vista della letteratura sportiva. Basta andare in una qualsiasi libreria per accorgersene: la maggior parte dei testi delle sezioni sportive, riguardano il calcio o i calciatori. Diciamo quindi che di questo vuoto ho cercato di approfittare. Ma la ragione più profonda è un’altra: sono stato un giocatore modesto, al di là di tanta buona volonta. A distanza di molti anni da quando ho appeso le scarpe al chiodo, poter scrivere libri di basket rappresenta un omaggio alla mia gioventù, piena di sogni ma scarsa di risultati. Inoltre ho spesso la sensazione che i miei trascorsi mi abbiano dato un ruolo nella comunità del basket; capita, infatti, che le persone mi fermino per strada, amici o ex compagni, per raccontarmi un aneddoto, un particolare o un dettaglio, una cosa molto appagante. Sul perché della biografia è presto detto: le trovo affascinanti; vale per i grandi della storia o per chiunque abbia vissuto un fatto o un momento significativo. La biografia di Hottejan poi va molto al di là dello sport. I suoi problemi e la morale del libro, esulano da canestri e da palloni. conosci un argomento, meglio puoi raccontarlo o spiegarlo, per iscritto in questo caso. Inoltre sul basket c
Come dosi la tua attitudine, ovvero, quanto c’è del giornalista, quanto dello scrittore e quanto dell’appassionato? Direi giornalista al 98 per cento. I ferri del mestiere del giornalista sono quelli più cari e più sicuri. Rappresentano la mia bussola. La passione e le competenze sono funzionali alla storia di cui scrivo. Principalmente cerco di raccontare una storia in modo chiaro, semplice, che non significa banalizzare, mettendoci dentro più vita possibile. La storia di Hottejan in questo senso contiene tanta, tantissima, vita. Forse anche troppa per una sola persona. Di sicuro non abbastanza per un solo articolo di giornale. Da qui il libro. In questo senso ho un debito enorme con lui. Mi ha dato il suo passato in mano, una responsabilità enorme. Spero di averne fatto buon uso: per lui e per i giovani che vorranno leggere il mio lavoro.
Quattro libri sono già un bel bagaglio: ci dai, motivandolo, un aggettivo per ciascuno? Capitan Uncino (Libri di sport - 2007): liberatorio e romantico. Avevo raggiunto l’oggetto del desiderio. Il libro! Non smettero mai di ringraziare Antonio Spennacchio che mi ha dato l’idea e con cui ho lavorato per il mio primo volume. Romantico perché racconta di un’epoca in “bianco e nero”, dello sport e del nostro Paese, cioé l’Italia di fine anni Sessanta nella quale splendeva la stella di “capitan uncino” Ottorino Flaborea, e forse ho peccato di “buonismo”. Spogliatoio (Kaos - 2008): politico. Un faccia a faccia serrato con il calciatore Paolo Sollier, che ci sapeva fare con i piedi ma anche con la testa, e mi ha dato modo di entrare in contatto con epoche e contesti di cui avevo solo letto libri o sentito parlare: dai movimenti rivoluzionari degli anni Settanta all’impegno sociale, passando per le lotte per i diritti civili. Eroi per caso (Gaffi Editore - 2009): ingenuo. L’apologia della generosità di Paolo Foglia, che ha perso la vita per salvarne tre, e quanto di più fuori moda mi capita di vedere. Forse ho cattive frequentazioni, ma in giro vedo tanto arrivismo, prepotenze e disonesta. Uno contro uno (Gaffi editore - 2011): familiare. Alex Hottejan è uno di noi. Ha vissuto quello che poteva capitare a tanti, della mia generazione ma non solo. Il suo ritorno a Itaca, cioé la sua salvezza, e un motivo di speranza per tanti.
Ci descrivi la genesi, la gestazione e il “parto cartaceo” di Uno contro uno? Giocavo a pallacanestro con il fratello di Alex Hottejan, Eric. All’epoca il basket nel Biellese navigava in acque meno nobili di adesso. La “prima squadra” era in serie C o giù di lì. Le gesta sportive di questo atleta che militava in serie A1 e in serie B erano per me e i ragazzi della mia generazioni qualcosa di epico. Poi incontrai e conobbi Hottejan da giornalista, quando da collaboratore scrivevo solo di basket. Era il 1994 e Hottejan era tornato a Biella. Due o tre anni fa quindi lo incontrai su Facebook. Dopo una pizza e un caffè insieme, l’idea: un libro su uno dei più grandi talenti italiani che giocava da professionista nonostante il problema della tossicodipendenza. Una specie di Gorge Best dei canestri, un Maradona di due metri. Un modo per dire a tutti: attenzione, la droga ti frega. E non è detto che a tutti vada sempre bene come successo ad Hottejan. Una storia che, giornalisticamente, aspettava solo che qualcuno la scrivesse. era in serie C o gi
La storia di Hottejan è davvero materia per la scrittura; ci sono biografie letterarie che ti piacerebbe venissero citate per descrivere il tuo lavoro? Impossibile citarle tutte. E selezionarle sarebbe sanguinoso. Posso però dire che i reportage della giornalista Emanuela Audisio, inviata speciale per Repubblica, rappresentano un punto di riferimento imprescindibile delle mie letture. Una che ha intervistato Mike Tyson o Carlos e Smith, i due atleti con il guanto nero sollevato al cielo a Città del Messico nel 1968. Una collega, così mi piace considerarla, al di là delle infinite distanze professionali, che non intervista al telefono, ma che attraversa l’Oceano e ti racconta i particolari dell’uomo, della casa in cui abita e quello che nessuno vede. Una grandissima.
Giornalismo e sport: come ci si riesce a districare tra “parole su e intorno” e quelle nel merito del fatto, anche romanzato? Come si compone la tua bussola? Il mio “navigatore satellitare” è l’identità di giornalista. Non sono un romanziere, quindi la via maestra è la verità o, meglio, l’onesta ricerca della migliore verità possibile attraverso fatti riscontrabili. Quella di cui ho raccolto i documenti, le testimonianze e le conferme. Certo anche quella che sento mia, ma che dichiaro apertamente. Come per un qualsiasi articolo: prima le pezze d’appoggio, cosi ci fa un quadro della situazione, e poi si scrive. Senza pregiudizi: Alex Hottejan è un amico, ma ho voluto raccontare la sua storia come se non lo fosse. Ho cercato di scrivere un libro vero.
Domanda di rito: progetti futuri? L’editore Alberto Gaffi ha pronto un mio libro, che penso uscirà tra un paio d tra un paio d’anni. Si tratta dell’ideale prosecuzione di Eroi per caso, quindi nulla a che vedere con lo sport. Mi piacerebbe scrivere un romanzo, ma ogni volta che tento, mi areno nelle difficoltà Allegato |
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