01/12/2010
108° SATISFICTION su Janice Galloway

Francesca Frediani - “Ero una Galloway fin nel midollo. Bastava dare un’occhiata alle fotografie per averne la certezza. Avevo il mento dei Galloway, i loro denti storti, i loro occhi azzurri vitrei e inespressivi”. Questo l’autoritratto di Janice Galloway, autrice due volte inserita fra i 100 Notable Books del New YorkTimes  (per Clara, del 2002, protagonista Clara Wieck Schumann, la pianista moglie di Robert Schumann, e la raccolta di racconti Blood, 1991,entrambi inediti in Italia). Ritratto ingeneroso e veritiero al tempo stesso, come tutto ciò che questa scrittrice scozzese 56enne scrive: e non stupisca il fatto che sia contenuto in un libro dal titolo Niente che mi riguardi (This is Not About Me). Perché contrariamente alla dichiarazioned’intenti, di memoir invece si tratta. A tutti gli effetti. È un vero peccato che Janice Galloway sia ancora così poco conosciuta in Italia: basta leggere le prime pagine di Continuare a respirare (The Trick is to Keep Breathing), il suo primo romanzo, datato 1989, che fin dall’inizio ti trascina per i capelli nell’inferno della depressione, senza quasi nominarla – facendotela percepire attraverso l’insensatezza dei gesti, l’ossessione dello sguardo senza sbocco – per capire che siamo di fronte a un vero talento. Non a caso, Irvine Welsh ebbe a definirlo “uno dei quattro o cinque libri scozzesi degli ultimi vent’anni che resteranno”. Onore al merito dunque a Gaffi, per avere pubblicato e averci finalmente consentito di conoscere, attraverso questi due titoli, un’autrice che in patria ha vinto un sacco di premi – il MIND Book of the Year/Allen Lane Award, l’E.M. Forster Award,il Saltire Society Scottish Book Award – ed è riconosciuta al pari di Ali Smith e A.L. Kennedy. Credo che il suo segreto sia la stratificazione, il procedere per accumulo. Sia nello scopertamente autobiografico Niente che mi riguardi, dove la crudezza degli eventi vissuti nell’infanzia – un padre violento e alcolizzato, una sorella folle che arriva a fare sesso con un uomo in sua presenza, mentre lei guarda fuori dalla finestra, o a darle fuoco ai capelli – sono descritti attraverso l’accumulo di dati, che da soli producono il pathos. Come se l’autrice ti dicesse: “Ecco io ero questa, prendimi così”, giustificando la barbarie del passato con il suo sguardo incendiario e purificatore, fino a costruire un autoritratto della “scrittrice da piccola”: immobile come una statua di sale, a osservare un mondo che non capisce e che la ferisce. Sia nell’ipnotico Continuare a respirare, dove non c’è spazio per l’autocommiserazione o il sentimentalismo a buon mercato, e l’ossessione della malattia viene descritta freddamente e con partecipazione al tempo stesso, attraverso il reiterarsi di gesti quotidiani e vitali – come respirare, appunto, mangiare, lavarsi, parlare – ma ormai senza senso. Il racconto che segue, Six Horses, è tratto dalla raccolta Where You Find It, ancora inedita in Italia.

SEI CAVALLI di Janice Galloway

 1.

Eve sta leggendo.

Dopo tre giorni passati a scalare, ancora non si erano presentati. Eve vede due persone,

un uomo e una donna, spuntare dagli orli delle sciarpe, con le bocche imbacuccate per

ripararsi dalla polvere di roccia. Così, al calare dell’oscurità, si erano persi il resto del gruppo.

Silenziosi, con andatura incerta, continuavano a scalare sperando di sentire un’eco degli altri

da una caverna vicina. Alla fine raggiunsero un punto morbido nella roccia, un suolo che

cedeva sotto i loro stivali: briciole di argilla e ciottoli all’inizio, poi il terreno che si dissolveva,

si separava da se stesso con una tale morbidezza che nessuno dei due pensò minimamente

di muoversi da lì. Un leggero e divertente suono di fibre che si sfaldano e si ritrovarono non

lontano in uno angusto tunnel sotterraneo. Una polvere sottile si alzava da terra descrivendo

volute nella luce dei loro elmetti come aroma di caffè, come fumo che riempiva le loro narici

con l’odore tipico della polvere da sparo; aspro, secco. I muri rilucevano debolmente di

ematite e carbone. Stretti l’un l’altro con le orecchie tese, aspettarono fin quando la polvere

non si fosse depositata attorno ai loro piedi. Quindi, senza fare alcun rumore per paura che le

vibrazioni smuovessero la roccia sovrastante, cominciarono a camminare. A breve distanza il

tetto spioveva improvvisamente. Non potevano più stare in posizione eretta ma continuarono

ad avanzare. Alla fine del tunnel trovarono un tumolo, come ventre gonfio della parete, coperto

di licheni. Egli passò il palmo della mano sopra di esso e lo sentì caldo. La consistenza dei

blocchi di torba essiccata o di zolle di terra secca. Si scambiarono un’occhiata veloce e

cominciarono a spingere a mani nude sulla sporgenza fin quando non si aprì all’improvviso un

buco grande abbastanza per permettere alle lampade dei loro elmetti di illuminare l’interno.

Spettrale alla luce bianca videro un cavallo. Un cavallo intero in piedi in una tomba sigillata.

L’uomo non credeva ai suoi occhi. Allungò la mano. Un tocco. E la bestia non era più lì.

Svanita, polverizzata. Non era più lì. È felice che lei (mette le sue mani incrostate di fango in

quelle di lei, stringe forte) sia lì con lui altrimenti avrebbe pensato che fosse tutto un sogno.

Eve legge la spiegazione scientifica, inappropriata. Ciò che conta è solo questo: un uomo e

una donna hanno guardato niente attraverso un pennacchio di fumo appena percettibile, una

stanza piena di foschia dove c’era stato un cavallo e poi si erano guardati. Sapendo che non

sarebbero mai più stati due sconosciuti. Eve afferra la carta come fossero capelli, guarda

attraverso la stanza.

 

2

Ascoltando, i caratteri di un libro non letto che scricchiolano sotto le sue mani egli tiene gli

occhi fissi. Le cuffie, lei lo sa, non sono fatte per contenere il suono; sono fatte per non farlo

entrare. Se si sforza riesce a sentire della musica ma è distante, un’eco. Dall’altra parte della

strada, degli operai salgono su un’impalcatura. Dietro di lui, si appoggiano sulla giostra,

sporgendosi per vedere se lei sta guardando. Gli cade il libro dal grembo, senza che nessuno

se ne accorga. Un ragazzo con l’elmetto giallo e Pegaso tatuato intorno al braccio, pende dal

cielo appeso per gli stivali.

 

3

Un’altra sigaretta. Accende, fa un tiro; la punta delle dita ambrata. Cerca i vincitori e le quote

in una lista sul giornale mentre lei risponde al telefono. Non c’è nessuno dall’altra parte. Dice

che farebbe meglio ad andare a casa stasera. Stasera non si ferma. Taxi e un treno le dice

lui. Roba seria. Volute di fumo sopra il suo labbro superiore, si spandono sopra il ritaglio di

giornale: i suoi occhi neri e bianchi, il pezzo tra i denti.

 

4

L’oscurità, scagliata oltre la finestra, riflette i suoi lineamenti sul vetro smerigliato. La gente

non muore per mancanza d’amore, pensa lei: almeno non muore nessuno. Eccetto i bambini.

Guarda gli occhi sulla finestra che fingono di appartenere a qualcun altro. Per un attimo lei

vede ciò che vede lui: una donna con una faccia straniera illuminarsi sul muro del tunnel prima

che esso si rompa. Il muro sparisce portandola via con se e il tunnel è finito, andato. Le sue

orecchie si riempiono di quiete mentre un coniglio svanisce nella boscaglia. Vicino, una forma

luminosa si innalza dal mare di grigio. Radente.

 

5

È la stanza che ha lasciato ma non la stessa. Sempre fredda, ma piccoli oggetti sembrano

caldi, invitanti al tocco. Non sembrava più impossibile che qualcun altro potesse stare lì. Va

tutto bene, gli aveva detto. Non siamo bambini. Lui non era stato a sentire. L’aveva guardata.

Occhi bruni. Fuori, oltre i cartelloni pubblicitari, la spiaggia spazzata dal mare, cavalli bianchi

si alzano sulla cresta delle onde del porto.

 

6

Non avevano bevuto molto. Lui si toglie la maglietta, le scarpe; si slaccia la cintura. L’ultimo

strato. Un fitto groviglio di nere felci si allarga sullo sterno e sulla pancia, una V rivolta verso

l’alto dal cavallo dei pantaloni. Il suo pene è così chiaro nella penombra che lei non può fare a

meno di tendere la bocca come una farfalla, una falena. Ha conosciuto solo uomini chiari, non

è preparata per quest’incarnato scuro, questa durezza, l’odore di questa pelle. Si domanda

fino a che punto la sua mano le avrebbe tirato i capelli, poi smette di chiederselo del tutto. Eve,

dice lui. Pronuncia il suo nome. Al mattino lei trova cinque lunghe ciocche dei capelli di lui,

una manciata di riccioli pubici, un unico ciglio. Vaghe tracce sul cotone bianco rigato di henné

dal primo sangue mestruale. È la stanza che lui ha lasciato ma non la stessa. La testa di lei è

piena di frane, polvere di carbone fosforescente, cavalli che si sciolgono.

(Traduzione di Eleonora Angelelli)